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VIENNA 1908: Trionfo dell’arte polacca

Nell’anno 1908, gli artisti polacchi si sono esibiti a Vienna per ben due volte: in occasione del venticinquennale del gruppo artistico Hagenbund e durante la rassegna degli artisti polacchi (43 artisti, 358 opere d’arte) organizzata dalla Società Sztuka. I cataloghi delle mostre sono consultabili on-line sui siti delle biblioteche digitali: www.digitale-bibliothek.belvedere.at/viewer/ e www.polona.pl Tale fu l’impatto di questi due eventi che un famoso critico d’arte William Ritter nel articolo “L’Arte polacca d’oggi” scrisse: “La scuola polacca è oggi la grande gloria d’arte per l’Austria, e Cracovia l’unica città la cui intensa attività artistica faccia ripensare le repubbliche italiane del quattrocento e del cinquecento.” (“EMPORIUM” vol. XXVII nr 161)

L’articolo originale con le foto in bianco e nero è consultabile sul sito http://www.artivisive.sns.it. Nella mia presentazione ho inserito, dov’era possibile, le illustrazioni a colori dal sito www.pinakoteka.zascianek.pl. Buona lettura!

Agata Rola-Bruni

COPERTINA NR 161/MAGGIO 1908, JOZEF MEHOFFER – GLI ELEMENTI SOGGIOGATI

EMPORIUM (Maggio 1908 vol. XXVII nr 161)

L’ARTE POLACCA D’OGGI

Ha riportato or ora, a Vienna, un trionfo tale, che costituisce la grande «attualità», non solo in Austria, ma anche in Germania, dove non c’è pericolo si nutrano sentimenti troppo teneri verso la povera Polonia. Difatti, io non conosco nulla di più commovente della costanza con cui questo paese, che ufficialmente non esiste più, si mostra più unito, più fiero e più valido che mai e mentre gli altri lo sbranano, si ricostituisce nei campi in cui nessuna politica può prevalere.

La scuola polacca è oggi la grande gloria d’arte per l’Austria, e Cracovia l’unica città la cui intensa attività artistica faccia ripensare le repubbliche italiane del quattrocento e del cinquecento. In essa tre o quattro uomini di genio sono bastati ad imprimere ad una plejade di talenti e ad un pubblico scelto tale moto entusiastico, che in nessun altro luogo, nel momento attuale, si fa tant’arte, o la si fa meglio, o la si esporta meno, e in nessun altro luogo a’attende più amorosamente all’abbellimento della città.

Manisfesto della mostra degli artisti polacchi a Vienna nel 1908, Stanisław Wyspiański “Maternità”

Ma Cracovia, la «Norimberga slava» per rispetto al pittoresco, la «Firenze polacca» per la cultura, possiede una tradizione antica, ed è una delle città più ricche di tesori che esistano al mondo: per vedere qualche cosa di uguale bisogna andare in Italia od in Ispagna, e il dirlo è un atto di doverosa giustizia  verso il cattolicismo e la monarchia che ne furono la causa. Cracovia è la città dell’incoronazione e della sepoltura dei re di Polonia; a mezza strada tra Vienna e Praga da una parte Kiev e Mosca dall’altra, fu sempre la sentinella avanzata della cultura occidentale verso L’Asia, poiché non dobbiamo dimenticare che i polacchi sono i soli slavi che abbiano cultura latina. A mezza strada altresì tra la pianura della Vistola ed i monti – che meravigliosi Carpazi che, posti solo per metà su territorio ungherese, come montagne sono interamente slavi – vicinissima alla Tatra che è la sua gloria, una città della sua fatta doveva, per la posizione come per la tradizione, dar vita ad una scuola moderna.

E Jan Matejko (1838-1893), uno dei nomi più grandi nell’arte del secolo XIX, un «veneziano polacco», come fu chiamato, è l’artista prodigioso che forma il legame tra il passato, tra i giorni gloriosi della Polonia, evocati continuamente dall’opera di lui, e la scuola moderna. Questa a sua volta ha i suoi continuatori nei grandi decoratori Wyspianski e Mehoffer, mentre per mezzo di Jan Stanislawski, il «padre del paesaggio polacco», si rende conto delle particolarità naturali della Galizia e dell’Ucraina e si dà a celebrarle.

Ma il Matejko e lo Stanislawski, artisti di primo ordine, non rimasero isolati. I principi della moderna scuola polacca sono più complessi, ed i precursori degni di menzione circa una dozzina. C’era stato Piotr Michalowski (1800-1855), buon pittore romantico di cavalli e di cavalieri, che sembra preparare la via al Chelmonski; I. Kossak (1824-1859), pittore di scene orientali e di chiatte cariche di bestie e d’uomini; il ritrattista Artur Grottger (1837-1867), che ricorda un po’ lo czeco Manes, come W. Podkowinski (1866-1895) ha qualche analogia a Cermak; l’acquarellista W. Gerson (1831-1901), del quale ricordo come lavori pieni di sentimento finissimo certe chiese vecchie ed un ritaglio di Tatra, illuminato da fasci di luce uscenti di tra le nubi; Aleksander Gierymski (1849-1901) e Maksymilian Gierymski (1846-1874), due pittori eccellenti, già assolutamente moderni, che hanno lasciato molte cose di valore; e poi Rodakowski (1823-1894), altro buon ritrattista.

Nel 1897, finalmente, si fondò a Cracovia la società Sztuka [Arte], per la pittura polacca incomincia un’era nuova.

Logo della Società “SZTUKA”, STANISLAW WYSPIANSKI – RITRATTO DI FANCIULLO

La società conta ora tra i suoi membri i ventiquattro migliori artisti viventi della Polonia, sotto la presidenza onoraria di Jozef Chelmonski, e s’onora d’aver noverato tra i suoi lo Stanislawski ed il Wyspianski, le cui opere, raccolte in esposizioni postume, contribuirono tanto all’ultimo trionfo della scuola polacca a Vienna.

Jozef Chelmonski (nato nel 1850) v’era rappresentato da un’opera sola: ma che opera! Un capolavoro. E spero che quel Viaggio d’inverno – quattro cavalli diabolici, che nell’impazienza della corsa scalpitano davanti alla slitta trattenuta a fatica – andrà a raggiungere, nel museo di Cracovia, la tela collocatavi nel 1878, che rappresenta, nel fiammeggiare d’un tramonto sulla messe, alcuni superbi cavalli, che giovani contadini fanno correre ed impennarsi davanti ai vecchi bojardi, signori della terra. Un dipinto altrettanto suggestivo del Chelmonski è quello di proprietà del prof. Moravski, in cui alcuni pastori, in mezzo alla malinconia autunnale delle vaste pianure, accendono un fuoco di stoppie.

Non occorre dire che la maniera di questo autore non ha nulla di secessionista: la data ch’essa reca non vale meno di quanto varrebbe se fosse la nostra. Incomparabilmente superiore al Meissonier come pittore di cavalli – talvolta un po’affine, sotto questo riguardo, allo Schreyer – egli raggiunge, dal lato del sentimento poetico, Jules Breton, ma ha di suo una passione, un brio assolutamente polacco, che ne lo rende differente.

All’esposizione Sztuka il Chelmonski era unico nel suo genere; forse, lo si sarebbe potuto comparare solo allo Stanislawski. Jan Stanislawski (1860-1907) è in Polonia il paesista per eccellenza, che sembra essersi limitato a riprodurre il paese senza personaggi. Di quadri suoi in cui abbia indicato qualche figura umana non ricordo altro che una veduta del Dniepr, ed anche là si tratta solo d’una folla turchina, indistinta come una vegetazione di muschio sull’argine del fiume. Ma più i suoi dipinti sono vuoti e nudi, più mi sembrano interessanti e pieni di poesia. Nessun pittore fu più sincero di lui; e se anche non avessimo una lunga pratica dei paesi polacchi, altri, più accessibili, sarebbero là a garantirci la eccellenza della sua visione; per esempio, la madreperlacea riva di stagno a Ville d’Avray, il prato crudamente e primaverilmente verde appiedi d’un vecchio muro claustrale in Italia, il ponte di Verona, certe facciate di cotto fra i cipressi, la terrazza di San Miniato. Col suo fare leggero e semplificato, succoso e forte, di getto, pastoso nelle masse e mirabilmente fino nei cieli, sapiente maneggiatore di certi toni grigi e bruni nelle zolle secche e nella polvere, come non li riscontrai che nel Grigoresco, di certi crepuscoli discreti come quelli del Cazin, egli ci si presenta modello perfettissimo di paesista poeta ed insieme di bel pittore, franco e realista, al pari di quelli che ci rivelò il secolo XIX in Francia: e qui penso all’Harpignies, al Boudin, al Français, ed anche a Ten Cate. Prima che a tutti però bisogna pensare al Grigoresco, perché nessun altro, in Francia ed in Italia, potrebbe ricordare i paesaggi immensi, l’orizzonte infinito, il vuoto ridente o tempestoso dipinto da lui. Pochi cardi, in un avvallamento del suolo, assurgono per lui ad un avvenimento; e questo motivo, quasi monocromo, d’un ritaglio di steppa veduto attraverso pochi rami spinosi e secchi, egli l’amò tanto da farsene bello, dicendo con un certo orgoglio: «È la specialità della casa!» Amò spassionatamente anche il Dniepr colle sue belle curve nella steppa rasa, e l’indicazione lontana delle sponde fluviali, grigie e terrose, attraverso lo spazio senza limiti. Della steppa disse tutte le sfumature e tutte l’espressioni; e pare che da un momento all’altro dovesse spuntare nel primo piano di quei terreni vaghi qualche figura gorkiana. L’attesa è vana, come sappiamo; tuttavia negli scritti del Gorki più ancora che nelle tele del Grigoresco troviamo i paesaggi più simili a quelli dello Stanislawski. Ricordiamo solo le rovine del romanticismo polacco sulle rive della Vistola, specialmente il castello di Tyniec, e la montagna di Zakopane, bianca e rossa al tramonto, sospesa nell’ombra notturna come un’immensa nube, come una meteora di sale insanguinata o di ghiaccio percorso da riflessi di fiamma; infine, i piccoli laghi indicibilmente tranquilli – gli occhi di mare – nascosti dalle fortezze granitiche della Tatra.

WOJCIECH WEISS – IN FAMIGLIA

Al seguito dello Stanislawski oggi viene tutta scuola. Sono primi i due fratelli Czaikowski; di questi – sia detto di sfuggita – Jozef non è soltanto paesista, ma anche eccellente decoratore, e lo prova il suo ordinamento di quest’esposizione medesima, in un’armonia di verde e d’oro,ispirata, sembra, da quelle magnifiche cinture del costume aristocratico polacco, che il museo inglese d’arte decorativa raccolse con sì intelligente rapacità. Come paesista, è un intimista, cui bastano, per toccarsi il cuore, i muri gialli d’un convento sotto le foglie gialle degli alberi mezzo spogli, o un raggio di sole invernale su un angolo di facciata gialla, su un arbusto fulvo che getta sulla neve lunghe ombre azzurrine.

Né riescono meno bene a suo fratello Stanislaw le armonie autunnali d’un piccolo cimitero campestre, in cui il sole e l’isolamento creano quasi un’impressione domenicale. Non mi piace tanto, quantunque svolga un motivo grazioso, la sua Domenica d’inverno in campagna.

Tra i pagliai, i cortili e le capanne coperte di neve, una fila di contadini, con pellicce di montone listate di cuoio rosso o verde, o in vesti scarlatte, vanno, tutti dello stesso passo, verso il desinare. Bianco il cielo, bianca la terra, bianchi gli oggetti all’intorno, tutt’è bianco, d’un biancore triste, senza luce. Però anche in quella tristezza voluta c’era forse mezzo di staccare meglio uno dall’altro tutti quei toni bianchi.

Julian Falat, nato nel 1853, è ancora uno dei decani della scuola polacca e celebre da molto tempo a Vienna come a Cracovia. Nelle sue opere egli ci presenta talvolta ruteni affollati intorno ad una chiesa rossa, tal altra le vecchie mura di Cracovia colla torre ed il bastione di San Floriano; o cacce invernali, slitte in corsa sulla piana bianca avvolta dal crepuscolo; un suo ruscello, scorrente tranquillo tra sponde di neve e croste di ghiaccio, con due soli arbusti bianchi che rompono la monotonia degli orizzonti piatti, è un’opera grande e forte, che colla sua tristezza implacabile lascia un ricordo profondo. Il Falat sa rendere la particolarità del cielo polacco in modo quasi altrettanto efficace che lo Stanislawski, colla differenza, che questi è il pittore dell’estate e della gioia di vivere all’aria aperta, mentre il Falat sembra preferire l’inverno soporoso ed intirizzito. E ricordiamo ancora il misticismo della sua Chiesa di S, Marco a Cracovia.

Anche Stanislaw Kamocki ha una certa grandezza tragica nella forza con cui s’impadronisce dei suoi motivi e li butta sulla tela, una rozza tela da sacchi. Ha, per esempio, una casa signorile di campagna, a solo piano terreno, con tetto e scandole e peristilio di colonne bianche tra gli alberi, in mezzo alla desolazione d’un giardino autunnale, flagellato dal rovaio nunzio di neve. Altrove, la neve si stende e si gonfia su una chiesina villereccia, di assi grigie, sotto un gruppo di alberi che la ricopre d’un festone di rame, mentre l’azzurrino delle foreste lontane concorre con certe leggere mezze tinte della brina a formare un’armonia generale di grigio. Sono due quadri tipici, fermati sulla tela con una specie di briosa improvvisazione.

Stefan Filipkiewicz si mostra all’esposizione di Vienna buon pittore di fiori, mentre in altre esposizioni si rivelò paesista sobrio e vigoroso, che predilige i campi su cui cade la grand’ombra della Tatra.

D’Artur Markowicz ricordo un’eccellente impressione dei dintorni di Cracovia sul finir dell’inverno, mentre Karol Maskowski ci trasporta in Moldavia, con squisiti interni di chiese della campagna rumena, un po’ rustici, un po’ violentemente variopinti, ma tanto caratteristici e tanto ben fatti. Ad Abraham Neumann basta un motivetto per creare grandi cose, benché egli s’accontenti di dimensioni molto ridotte; in uno Studio invernale ha un burrone poco profondo nella neve, un ruscelletto intraveduto tra due sponde di ghiaccio, un piano bianco dove scherzano il sole e l’ombra, un insieme d’effetto graziosissimo.

Jozef Pankiewicz espone buoni studi parigini – il Louvre ed il giardino delle Tuileries – , nature morte e fiori eseguiti con virtuosità, un vaso persiano azzurro su azzurro grigiastro, un Budda ed un mazzo di garofani bianchi; gli auguro che questi studi coloristici, di vero valore, l’aiutino a liberarsi dall’orribile intonazione gialla, frequente nei suoi ritratti, che si direbbero dipinti alla luce artificiale, benché dimostrino penetrazione psicologica ed amorosa cura dell’esecuzione.

Ferdinand Ruszczyc fa anche lui la figura d’un maestro fra tutti questi paesisti pieni di slancio e di fede; di lui ricordo anche certi interni a pastello, ispirati ad un’antica villa, che sembrano pagine d’un diario della solitudine.

Stanislaw Podgorski, buon pittore di marine della scuola del Harrisson per la calma, del Thaulow per le tempeste, ha un modo particolare di vedere le dume sabbiose; Edward Trojanowski mi piace soprattutto in un quadro della Vistola; Leon Wyczolkowski ha buoni quadri di fiori, interni ed un ritratto.

Vedremo poi, qual paesista straordinario sia stato il grande decoratore e poeta Stanislaw Wyspianski, ma prima dobbiamo completare questa rapida rivista dei pittori del paesaggio ricordando alcuni artisti dedicatisi alle scene popolane e rivelanti individualità di prim’ordine. Wlodzimierz Tetmajer mi sembra corrispondente allo slovacco Jozka Uprka: la Benedizione del mercato ed altri quadri suoi sono altrettanto pieni di colore e di luce, quanto è improntato alla tristezza invernale il Funerale in campagna di Fryderyk Pautsch, colla sua caratteristica tipica e precisa del popolo ruteno. Lo stesso si può dire dell’opera di Kazimierz Sichulski, da Leopoli: i suoi Orfani e il Pomeriggio domenicale traducono tutta la poesia latente delle razze primitive: egli è per i montanari dei Carpazi ciò che sono il Cottet ed il Simon per la Bretagna ed il Roerich per la Russia.

EUGENIUSZ ZAK – IL VIOLINISTA (TEMPERA), TEODOR AXENTOWICZ – RITRATTO A PASTELLO

Dopo i pittori del popolo, quelli della borghesia, e primo fra essi Wojciech Weiss, nome già conosciuto. Nei suoi quadri esposti a Vienna, e che rappresentano deschi familiali ed alberi di Natale, bambini in contemplazione davanti ai balocchi ed alle chicche, luci gialle di lampade, sole sui fiori, pioggia sui girasoli, c’è una specie d’austerità senza godimento: buonissima pittura, ma che sembrerebbe alle volte spoglia dell’idea dell’opera d’arte; quadri d’un’abilità più che pregevole, però nessun d’essi, meno i Girasoli, procura altra soddisfazione che quella d’ammirarne la fattura. Siamo agli antipodi di ciò che produce Teodor Axentowicz. SEGUE A PAGINA 2

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