Questi, un pittore tutto grazia, eleganza, sfumature delicatamente combinate, ci rappresenta la vita polacca di società colle sue attrattive particolari, come ce la figuriamo attraverso la musica ormai lontana dello Chopin, per esempio nel ritratto della principessa Czartoryska, tutto grigio ed oro con un angolo di cuscino verde, in un altro ritratto d’una bella creatura pallida ed aristocratica, nel pastello della sua famiglia… Olga de Boznanska, una delle ritrattiste più distinte del nostro tempo, ha studiato molto davviccino il Velazquez ed Eugène Carrier; un ritrattista del carboncino, Karol Tichy, ha altrettanto valore per il carattere di grandezza che per la semplificazione ardita colla quale sa trar partito dai suoi modelli. Infine, Eugeniusz Zàk combina sì stranamente l’influenza del Gauguin con un voluto carattere medioevale – due ordini d’idee punto fuori di posto quando si tratta di ritratti bretoni – che non si sa bene chiamarlo ultra-modernista od arcaico.
Il gruppo di scultori polacchi che la Sztuka ci presenta a Vienna sono lontani, in generale, dal raggiungere il livello dei loro confratelli pittori, e soprattutto non offrono né un complesso altrettanto omogeneo né una direttiva altrettanto nazionale: hanno facilità, brio, idee, ma guardano troppo all’occidente, mentre la forza dei pittori polacchi sta nel guardare al loro paese, il che vale non solo dei citati paesisti, ritrattisti e pittori di genere, ma anche dei decoratori, dei quali parleremo.
Di tutti gli scultori, il più abile ed il più elegante è Edward Wittig, molto ammirato, e giustamente, a Parigi, il che prova del resto com’egli non abbia in sé nulla di polacco. Bisogna diffidare dell’ammirazione parigina per un artista straniero, quand’essa sorga improvvisa, senza preparazione e senza opposizione: vuol dire che quello straniero non sembra pericoloso a nessuno. Valgono molto più, in questo caso, le mormorazioni, le opposizioni e fino i fini sdegni provocati da un Wagner, da un Brahms, da un Bruckner, da un Böcklin, da un segantini o da un Roerich, e in generale da quanti recano o una novità o un accento nazionale opposto all’accento nazionale francese.
Ecco, d’altra parte, Henryk Glicenstein: chi direbbe che non sia un italiano? Preferisco ancora l’Ebreo in orazione di Henryk Hochmann, che mi fa constatare, così tra parentesi, come lo strano mondo degli ebrei galiziani non abbia ancora trovato il suo pittore: solo presso il Grigoresco, in Rumenia, ho veduto soddisfacenti ritratti di quella razza e scene della sua vita incredibile. Passando, segnalo un buon busto di Jan Scepanowski [Szczepkowski] ed uno, migliore, di Stanislaw Osztrowski [Ostrowski]; senza essere decorativi, mostrano molto talento le scene ed i ritratti di Anastazy Lepla; Konstantin Laszczka ha certi ritratti di bimbi, graziosi e vivi, ma alquanto sdolcinati: somiglia un po’ all’Axentowicz, mentre il fare del Wyspianski è ricordato da Xavery Dunikowski, un vero poeta, che nella ricerca d’un’espressione tangibile per certi simboli alle volte cade nell’assurdo o nel mostruoso; ma il suo Dante è una vera concezione da pensatore, e più ancora sono tali le quattro statue di donne d’età indefinibile, vestite in costume moderno, che sembrano scivolare, ballare, fare la riverenza, svanire come fantasmi e si dice debbano ornare un giorno la tomba d’autore. E c’è tanta amarezza in quella testa strappata dal collo e gettata là brutalmente, così come altre teste, d’una tragicità storica, si posarono sul ceppo: questa, a dir vero, sarebbe stata l’unica scultura degna d’accompagnarsi, senza parer debole, ad una decorazione di quell’altro poeta che fu Stanislaw Wyspianski.
Le due illustrazioni della sua esposizione postuma che pubblichiamo danno un’idea sufficiente della sua abilità nel mettere in scena. Bisogna avvertire, prima di tutto, che il Wyspianski è il più grande poeta polacco moderno e che s’occupava personalmente dell’allestimento dei suoi drammi, dai costumi degli attori alle illustrazioni ed alle legature originali dei suoi libri, mentre nel contempo vestiva d’affreschi e di tappezzerie le pareti, decorava di vetri dipinti i finestroni delle chiese e ritraeva al pastello i bimbi che l’attorniavano. Così, per metterlo nel suo ambiente, all’esposizione di Vienna si ricorse ai suoi mobili da teatro, per esempio alle tre poltrone robuste e barbare che avevano suscitato tanta impressione nella rappresentazione del suo Boleslao il Temerario; furono richiamate tappezzerie e tende, meravigliosamente decorate in istile giapponese e slavo, dal Circolo dei medici di Cracovia, e ancora decorazioni in legno dal suo teatro. E alle pareti, tra gli altri quadri, figuravano i ritratti dei suoi migliori attori nei momenti più caratteristici delle loro incarnazioni. Poiché il Wyspianski non solo disegnava i costumi prima della recita, ma quando era rimasto contento degli attori, li rinumerava con ritratti sommari e sobri, pieni di carattere e di fierezza.
Eppure, gli ultimi anni di vita di quest’uomo, che seppe darci opere piene di brio, furono una lotta continua, coraggiosa, sublime sotto certi aspetti, contro la morte nella sua forma più ributtante; sulla decomposizione organica di quest’uomo ancora giovane, che i ritratti fatti a vent’anni mostrano sì seducente, domina una volontà di ferro, uno spirito di fuoco, che concepiscono ed operano senza posa, con una fretta febbrile, fino all’ultim’ora.
All’infuori dei grandi lavori decorativi, pochi quadri del Wyspianski vengono a dirci dove quest’artista singolare sarebbe potuto arrivare: fra essi, quel’incomparabile Maternità che riproduciamo in uno studio preparatorio, e parecchi paesaggi, nei quali ricorre, come in un’ansia, ai mezzi più sbrigativi, ai grandi formati, agli schizzi violenti ed espressivi quasi fino alla caricatura.
Il grande ostacolo alla pronta comprensione piena ed intera del Wyspianski sta non nel suo disegno, ma nel suo colorito. È il caso identico dell’Hodler, col quale egli ha parecchi punti di contatto: il disegno è già forte – a grandi svolazzi arrotondati nelle pieghe delle vesti, come si incontrano solo nelle antiche stampe cinesi – ed espressivo nei tratti del viso e delle mani, tanto da far ricordare il medio evo ed i precursori svizzeri e svevi del Holbein; mentre ridotto al formato delle nostre riproduzioni acquista un aspetto d’ingenua goffaggine, di noncuranza della linea elegante, d’osservazione sovracuta richiamante i più rapidi e più rudi disegni del Durero. Ora interviene il colore: un colore che lascia trasparire la pratica dello scenografo, avvezzo ad operare per la visione da lontano e per la luce artificiale, con certi toni rossi, verdi, gialli, bruni assolutamente insoliti, con un senso dell’armonia allontanato dalle nostre abitudini per lo studio dei giapponesi.
E il decoratore in lui sorprende tanto per la scelta di colorazioni anormali, d’accordi «proscritti», quanto per la geniale singolarità delle idee. Evidentemente a Parigi ha studiato il Grasset, Carlos Schwabe, il Mucha: lo si sente subito; ma al contatto coi giapponesi si distoglie da ogni regolarità matematica e concepisce una decorazione asimmetrica, che gli permette di dar libero corso alla fantasia. Nella flora dei suoi finestroni francescani c’è un’esuberanza tropicale; poi viene la malattia, la clinica, il laboratorio di chimica e la decorazione del Circolo dei medici di Cracovia, e il poeta inventa miti scientifici, e traduce in allegorie il sistema di Copernico, ricorrendo a colori che sembrano intraveduti in quel’inferno chirurgico ch’egli frequenta ormai giornalmente.
Per qualche istante, ritorna ancora alla flora stravagante del passato, ma le sue rose prendono ora un aspetto nuovo e sembrano trasformate in senso anatomico o medico, rose gigantesche, proiettate su un quadruplo arco di cerchio, con pieghe di viscere e con tutta quella bellezza commovente che può conferir loro un’immaginazione avvezza a profanare le peggiori miserie fisiche. Conviene dunque notare, che ove si voglia parlare della «mitologia scientifica e dell’arte pittorica avvenire» all’infuori di Francia – come l’ha fatto mirabilmente, pel Besnard e per la Francia, Camille Mauclair – bisogna ricordare subito il Wyspianski, ancor prima del Klimt, la cui Medicina contiene certi tratti e fors’anche certe idee prese a prestito dal maestro polacco.
Le sue fantasie hanno qualche cosa di grandioso e di temerario, che in passato scatenò collere e spaventi. Oggi soltanto i suoi avversari abbassano l’armi, e la Polonia intera comprende ciò che ha perduto. E bisognerà anche che siano eseguiti, nella cattedrale del Wawel, quei prodigiosi finestroni di San Casimiro e di Santo Stanislao, che in terrore del pubblico obbligò a relegare nel museo di Cracovia. Aveva avuto l’audacia d’oscurare le finestre della Cappella coll’apparizione di due mummie che si presentano nella cassa aperta. «Visione tragica di spoglie regali – dice Adam de Cybulski – rimiranti dal fondo delle occhiaie vuote il presente inglorioso, idea ardita, ma tanto appropriata al luogo e che dall’esecuzione, grande e semplice, era attenuata in ciò che letterariamente sembrava avere di troppo macabro e di monotono».
Ed ora torniamo alle sue opere meno grandiose, più gentili, ma tuttavia capitali e definitive, di questo grande poeta e grande pittore, ch’ebbe solo il tempo d’indicarci ciò che avrebbe voluto fare. Riparliamo per un momento di Maternità, il capolavoro tra i suoi quadri di cavalletto.
È un’opera realistica e poetica insieme, filosofica e decorativa; l’attuazione geniale di tutti questi postulati fa di questo quadro la creazione più curiosa della pittura polacca, dalla Dieta di Grodno di Jan Matejko al Giardino colla libellula di Jozef Mehoffer. Una donna dalla bellezza svanita, la nutrice tipica, la madre nel senso animale della parola, porge il seno ad un bimbo rachitico ed ingordo; due bambine graziose, dal tipo slavo, guardano il misero fratellino, e pajono la personificazione dell’ingenuità davanti alla delusione brutale; dietro il gruppo, alcuni gerani in fiore. Le vesti di tutti risentono del sistema decorativo nato dall’arabesco di foglie e di fiori sovrapposti, il che forma una specie d’unità materiale.
È il contrasto tra la vita animale e la vita sentimentale, tra l’ignoranza leggendaria e lirica e la scienza frusta e brutta; sono i due periodi, nettamente opposti, nella vita della donna e forse dell’umanità. È un quadro realista come nessun altro, idealista più d’ogni altro, quindi un quadro completo, una specie d’assoluto. Poi d’un’armonia coloristica, nei verdi e nei gialli, sì rara e raffinata!
Non si finirebbe più, a parlar del Wyspianski: dovrei dire dei suoi Angeli Custodi dai capelli gialli, projettati sul turchino; della Santa Salome, austera e rigida, dalle cui mani sfugge la corona regale; della Castità inquietante, dalle carni clorotiche; del Wawel, grande ed azzurrino tra le rame di castagno; delle illustrazioni per l’Iliade, che fanno pensare ad un Klinger slavo, più geniale, meno pratico e soprattutto meno accurato… ma voglio discorre ancora del Mehoffer, e la fretta s’impone.
Questi, grazie a Dio, vive, e d’una vita traboccante dalle opere, quale l’arte decorativa dopo Venezia non l’aveva più conosciuta. Il Mehoffer è la decorazione fatta uomo, nata in seno alla pittura pastosa. Nessuna traccia, in lui, di quella nitidezza grafica che in altri sembra una condizione necessaria dell’arte ornamentale, né di quel continuo cambiare e permutare, aggrovigliare e stilizzare che s’apprende in iscuola e che comincia a divenire stucchevole; mai due forme che si rassomiglino, mai linee che si ripetano, ma sì linee che si corrispondono o si contraddicono come in un lampo inatteso, risultato precipitoso d’un continuo cozzo di forme e di colori. È una mischia d’elementi contraddittori , che si risolve in esplosioni furiose di gioia, di trovate e di felicità, quali solo il caso soggiogato dal genio – dal genio che sia anch’esso un caso e non una «lunga pazienza» – le può accumulare: finestroni per le cattedrali di Cracovia, di Leopoli e di Friburgo in Isvizzera; affreschi e finestroni per la cattedrale armena di Leopoli; un fregio in porpora , nero ed oro su bianco per la casa degli artisti a Cracovia; altro fregio, screziato ed oscuro, con file di putti in oro, per l’atrio del Reichsrath di Vienna; poi il fregio colossale degli Elementi soggiogati per la sala della Camera di commercio di Cracovia… e tant’altre cose che potrei citare, se non mi chiamassero i quadri.
Cominciamo dalla Principessa di sogno, fantasia shakespeariana in cui alcuni bambini ed una bambina della campagna polacca, camuffati a festa, sembrano imitare una cerimonia pontificale, cui non occorre dare altra interpretazione che quella artistica. Da raccontare non c’è nulla: è una fantasia di pittore e tanto basta. Ma vi si può sorprendere il quadro da cavalletto in atto di diventar decorazione, mentre negli Elementi soggiogati il passaggio è già avvenuto. Il Mehoffer è uno dei più bei creatori di miti che si siano mai avuti e tale tempra d’artista, che i miti sorgono dalla sua pittura, al contrario di quanto avviene comunemente ai pittori letterari ed anche allo stesso Wyspianski. Principessa di sogno, oggi senza spiegazione, potrà generare domani un’opera d’altissimo simbolismo, della quale racchiude già virtualmente il germe. E sono certo, che se si potesse conoscere l’origine degli Elementi soggiogati nell’immaginazione del pittore, si resterebbe confusi per la piccolezza del germe realista che avrà determinato questa concezione formidabile e s’ nuova. Un giovane gigante nudo, in uno slancio forsennato e sorridente insieme, soggioga coi piedi e colle mani quattro donne: la terra, ch’egli calpesta, l’acqua che in cascata di capelli gli s’effonde su un braccio,il fuoco e l’aria ch’egli coll’altra mano afferra per l’ali e per le vesti variamente sfolgoranti. Sembrano i quattro tempi d’una sinfonia presi insieme, le quattro ali d’un mulino a vento piantate sullo stesso albero.
I ritratti del Mehoffer inaugurarono la sua celebrità insieme coi primi vetri dipinti. egli ha il dono di vedere tutto sotto un angolo decorativo, e fin da un mostro, credo, saprebbe trar partito per farne una cosa nobile e grande. Viceversa poi, ha la fortuna di ritrarre i più begli uomini e le più belle donne della Polonia. O se non i più belli, almeno i più tipici, come quel magnate in costume nazionale, che sembra uscito da un quadro del Matejko.
Concludendo, se per la creazione d’un’arte nuova, capace di una vera ascensione, occorrono popoli giovani od almeno ringiovaniti, ed artisti che ne sappiano rappresentare i gusti e le passioni, nessuna nazione è meglio avviata a presentarci uno spettacolo più consolante della nuova Polonia, raccolta nella pace e nella libertà relative, lasciatele solo dall’Austria. E se, perché quest’arte abbia a mettere radici veramente nazionali, fa mestieri il più completo accordo, come tra gli artisti ed il popolo, così tra i novatori ed una tradizione storica ininterrotta, è ancora la Polonia colei che sembra predestinata, più d’ogni altra nazione slava, ad offrirci le sinfonie meravigliose procedenti da quelle armonie. Inoltre, se c’è al mondo un paese, in cui le individualità più disparate e più intense siano meno assertive ad un sistema convenzionale somigliante ad una specie di militarismo intellettuale, è la Polonia. Finalmente, poiché, per un vero dono di Dio, essa è il paese, il quale, proporzionatamente alla sua popolazione, abbia prodotto ai nostri giorni il maggior numero d’artisti, la miglior media dell’arte, e, in questo numero grande ed in questa media splendida, in mezzo secolo, tre individualità sì geniali, sì anormali e sì significative, quali il Matejko, il Wyspianski e il Mehoffer, bisogna riconoscere, che la Polonia, sventurata, fatta a pezzi, ma che tuttavia non perisce, anche politicamente, e non potrebbe perire, è una delle più fortunate regioni dell’Europa artistica.
Sono ben lontano dall’aver anche solo misurato tutta la distesa, indicato tutti gli aspetti di questa nuova patria dell’arte; però lo voluto almeno proclamare l’importanza.
L’arte polacca non si studia in qualche viaggio ed in qualche esposizione, come non si studia la musica czeca in un breve soggiorno ed in qualche concerto a Praga; oggi la missione consiste nel gridare, basandomi sui punti di confronto e d’appoggio che m’offrono la Francia, l’Italia, la Germania e l’Inghilterra: c’è tutta una pagina di storia dell’arte antica da esumare; c’è tutta una scuola giovane, avviata coraggiosamente verso l’avvenire, da scoprire e da studiare. E soprattutto si tenga ben presente questo, che quest’è l’unico punto, in cui l’anima slava e la passione slava siano venute a contatto profondo, intimo, assoluto colla cultura latina, mentre Praga segna il loro punto di contatto colla cultura germanica. La musica di Praga e la pittura di Cracovia sono i due fenomeni etnico-estetici più interessanti a studiare nella nostra vecchia Europa e quelli che hanno il grande avvenire.
WILLIAM RITTER
William Ritter (1867-1955) fu scrittore, giornalista, pittore, critico d’arte e critico musicale. La sua vita, composta da viaggi e soggiorni all’estero, principalmente in Europa centrale, fu marcata da incontri con degli scrittori, dei pittori e dei musicisti. Per saperne di più leggi: https://memoriav.ch/projects/fondo-william-ritter/?lang=it