Confidente e lettore di Stanislao Augusto fu l’abate Benvenuti, ex-gesuita, scrittore forbito ed elegante, mentre il veneziano Stefano Bisio, dapprima insegnante anatomia all’Università di Vilna, era suo consigliere privato. Notaio era il lucchese Graziano Moriconi. Fedele a tutta prova al Re, fu il barone Ernesto Cocciei, naturalizzato polacco, colonnello della Guardia Reale a piedi, il quale allorquando nella notte del 3 novembre 1771 alcuni congiurati rapirono Stanislao Augusto, che usciva dal palazzo Czartoryski, corse con un distaccamento di soldati riuscendo a liberarlo ed a ricondurlo in Varsavia da Bielany, dove era tenuto in ostaggio per costringerlo ad abdicare.
Banchieri della Corte erano gli italiani Gregori e Pepi, ricchissimi, i quali sovvenirono sovente il Re di grosse somme. Come è noto, Stanislao Augusto era continuamente angustiato da preoccupazioni finanziarie, a motivo delle enormi sue prodigalità.
Francesco Roccatani era lo spedizioniere reale per l’Italia, e sembra ancora che egli sia pure stato incaricato di alcuni affari di stato che esigevano discrezione ed avvedutezza.
Amante delle belle pubblicazioni, Stanislao Augusto accordò la sua alta protezione all’editore Stefano Baccigaluppi, venuto dall’Italia a stabilirsi a Varsavia (I – Persino quella brutta cosa che è il lotto fu data in appalto a un tale Boccardo).
Durante il suo regno, il Re, ebbe intorno a sé molti pittori italiani: dal romano Marcello Bacciarelli fece dipingere per il Palazzo Reale e per la Villa di Lazienski, quadri ricordanti i fasti della storia di Polonia, nonché soggetti biblici e mitologici e la serie dei ritratti dei re polacchi da Boleslao I sino a lui. Il Bacciarelli venne creato nobile nel 1771 ed in seguito nominato direttore architetto generale delle fabbriche del regno. Attivissimo, fondò coll’aiuto del Re una Accademia di Belle Arti, la prima forse sorta in Polonia.
Furono pure assai apprezzati dal Re, Domenico Del Frate, Giovanni Lampi, Giuseppe Grassi, la grigionese Angelica Kaufmann, i quali tutti eseguirono parecchi ritratti del Re. Costantino Villani invece, protetto dal principe vescovo Massalski, lavorò per la cattedrale di Varsavia, e non è improbabile, data la sua perizia nel genere sacro, che abbia anche decorata la cappella di Corte. Più noto fra tutti i pittori della Corte di Stanislao, è però indubbiamente Bernardo Bellotto, detto il Canaletto, che ebbe il titolo ufficiale di pittore del Re, con un mensile di cento ongari, abitazione, legna, ed altri vantaggi, che la generosità del Sovrano non lesinava mai alle persone addette al di lui servizio. Rimase vent’anni a Varsavia ed allorquando morì nel 1784 per apoplessia, Stanislao ne provò un vivo dolore: alla vedova accordò una pensione cinquanta zecchini al mese. Lavorò molto per il Re; fece circa sessanta quadri di vedute diverse, e l’elezione di Stanislao Poniatowski a Wola, grande dipinto, riprodotto poi a migliaia di esemplari in incisione (I – S.A. mandò a studiare a Roma giovani polacchi e fra gli altri Smuglewicz).
Bartolomeo Folino fu ingegnere militare ed incisore: fece i ritratti del Re e dei principi reali, incise in rame una accurata carta topografica della Polonia, e disegnò prospettive di fortezze, lavori che gli valsero la nobiltà polacca e la nomina di direttore della Scuola di Genio di Varsavia. Questo veneziano arguto semplice e pieno di brio, fu anche un piacevole poeta: nel 1778 a Cracovia, pubblicò nel nativo dialetto una raccolta di versi intitolata «Il Bassolino».
Quando Stanislao pensò a farsi edificare alle porte di Varsavia la Villa di Lazienski, della quale già si è accennato, ne affidò quasi esclusivamente ad italiani la costruzione, le decorazioni esterne e l’abbellimento interno.
Fra gli artisti che vi lavorarono, oltre a Bacciarelli, va ricordato: Domenico Merlini di Brescia, primo architetto del Re, al quale devesi il piano generale di costruzione. A questo illustre artista si devono pure la sala dei concerti, la biblioteca e la sala dei Sovrani nel Palazzo Reale. Stanislao lo creò nobile assieme al di lui congiunto e cooperatore Valentino Merlini. Le statue che sormontano l’attico, sono opera dello scultore milanese Giacomo Monaldi, il quale per ordine del Re ornò pure con le statue dei quattro evangelisti la facciata della chiesa dei Bernardini. Così gli stucchi leggiadri e i soffitti dei saloni della villa, sono dovuti a Tomaso Righi, accademico di San Luca di Roma.
Il nuovo teatro di Varsavia venne pure edificato da un italiano, l’architetto Solari, mentre Antonio Corazzi di Livorno, architetto del Governo, inalzava il grandioso Palazzo della Borsa, il Palazzo della Società Letteraria ed altri notevoli edifici. Addetti al servizio reale e dello Stato furono pure gli architetti: Domenico Scamozzi di Vicenza, illustre di già anche in patria, il quale restaurò e rimodernò il Palazzo Reale nelle sue linee esterne, il ticinese Bertogliati, Filippo Carosi, Fontana, i fratelli Stagi di Pietrasanta, Bartolomeo Bellotto ed altri ancora meno noti.
Ma la nostra musica trionfò a Varsavia, non meno della pittura, della scultura e dell’edilizia. Stanislao Augusto, la cui incoronazione era stata celebrata da Michele del Zanca con una cantata a quattro voci, conosceva assai bene la musica, e non appena salito al trono sua cura fu di riorganizzare la cappella regia: essa fu diretta successivamente da Francesco Morino, da Gaietani che scrisse una tragedia e per ultimo dal maestro Albertini (nominato nel 1784), autore di un «Don Giovanni». Il Viotti iniziò la sua carriera musicale come secondo violino dell’orchestra reale, della quale fecero pure parte per qualche tempo i fratelli Daloca e Giovanni Stefani, chiamato poi a dirigere la Cappella della cattedrale di Varsavia, per la quale scrisse anche buone melodie.
Cimarosa, Martini, Pugnani, Anfossi, Salieri furono tutti, più o meno, ospiti di Stanislao, ma chi ebbe accoglienze addirittura trionfali fu Paisiello, il quale, dietro desiderio del Re, musicò la «Passione di Cristo» di Metastasio. Come Oratorio venne eseguito – diretto da lui stesso – alla presenza di tutta la Corte, il Giovedì Santo dell’anno 1784. Fu un avvenimento per Varsavia, del quale parlano tutti gli storici polacchi.
Il Teatro di Corte e la Sala dei Concerti a Varsavia ed a Lazienski, durante tutto il regno di Stanislao, echeggiarono di musica italiana, con qualche breve intermezzo di musica polacca, di Oginski e di Kamienski. Vennero rappresentate ad epoche diverse: l’«Axur» e la «Scuola di gelosi» di Salieri, l’«Albero di Diana» di Martini, il «Re Teodoro in Venezia», il «Filosofo istruito», la «Bella Giardiniera», l’«Italiana a Londra», la «Modista Raggiratrice», la «Finta amante», ed ed altre ancora di Paisiello, l’«Impresario nell’imbarazzo» e «Li due di Rocca Azzurra» di Cimarosa, la «Serva Padrona» di Pergolese, la «Follia d’Amore» di Sacchini, la «Falsa Giardiniera» di Anfossi, ecc. Diresse qualcuna di queste opere il maestro polacco Boguslawski, che conosceva a perfezione la nostra musica: gli artisti però – almeno nelle parti principali – erano italiani, quali la Coralli, diva dall’ugola d’oro. Tutta questa musica spigliata, gaia, mandava in visibilio la Corte, a cominciare dal Re, e dalla sua favorita la bella e voluttuosa contessa Grabowska.
In quanto al teatro di prosa, furoreggiarono dapprima i drammi del Metastasio, indi le tragedie dell’Alfieri, e di queste particolarmente gustata fu il «Saul».
Passando ora nel campo politico – e la politica ebbe una grande importanza con l’ultimo re di Polonia – godevano lo speciale favore del re i diplomatici delle potenze estere, coi quali intratteneva relazioni cordiali: essi erano, in tutte le feste che si facevano a Corte, accolti sempre amabilmente da Stanislao, il quale, come è noto, aveva una conversazione facile e attraente. Di italiani si ricordano il conte Ercole Bolza e il marchese Curtis, entrambi Agenti in Varsavia, il primo del Re di Napoli e il secondo della Repubblica Veneta. La Casa di Savoja, non avendo rappresentante a Varsavia, il Re si servì sino al 1773, pere le sue relazioni con Torino, del ministro sardo a Vienna, conte Malabaila di Canale, da lui personalmente conosciuto nel 1762 nella capitale austriaca, assieme a Metastasio. Questo diplomatico, assai affezionato a Poniatowski, rese eminenti servizi alla Polonia. Dopo di lui il Re si servì dell’abate conte Montagnini che resse la Legazione piemontese a Vienna e forse anche di un certo conte Tomatis di Chiusavecchia, suddito sardo, dimorante a Varsavia, dove si era fatta costruire una suntuosa villa.
Giova notare poi, che buona parte della diplomazia ufficiale del regno di Polonia all’estero, era italiana: rappresentava il Re a Roma, il marchese Tomaso Antici, dotto sacerdote, fatto poi cardinale, coadiuvato nel disimpegno delle sue mansioni piuttosto difficili dai procuratori Miselli, Monaldini, Collizzi e dal cancelliere Ferretti. Agente a Venezia era il cavaliere Oglio, a Genova l’abate Bollo, a Torino il cavaliere Brunati, a Napoli il barone Rajola
Quando in Polonia avvennero le prime difficoltà interne provocate dalla Russia e dalla Prussia, Stanislao ebbe per agente segreto a Parigi l’avvocato Filippo Mazzei, persona fidatissima ed esperta, il quale teneva informato minutamente il Sovrano del procedere della rivoluzione.
In un regno profondamente cattolico, godevano di molta autorità i nunzi papali: il Re doveva perciò, per ragioni evidenti, tenerseli amici, poiché essi esercitavano una certa influenza sulle Diete, delle quali facevano parte i Vescovi. Allorché Stanislao salì al trono, rappresentava la Santa Sede a Varsavia monsignor Eugenio Visconti, il quale si è efficacemente adoperato per la di lui elezione; egli era dunque persona grata a Corte, e come tale colmato di onori e di doni. Quando venne richiamato, Stanislao Augusto chiese per lui il cappello cardinalizio. A lui succedette il fastoso e spendereccio monsignore Angelo Durini dei conti di Monza, il quale menò in Varsavia treno di lusso, diede feste e ricevimenti alla Nunziatura, frequentò l’alta società, occupandosi in pari tempo di politica – forse più del bisogno – tanto da mettersi qualche volta in urto persino col Re. Il Durini, sia pel momento nel quale andò in Polonia – assistette al primo smembramento di quel paese (1772) – sia per le difficoltà che la sua missione ebbe ad incontrare nella questione dei dissidenti, lasciò a Varsavia lunga memoria di sé. Del resto buon poeta, ingegno versatile e fecondo, egli fu uno dei più illustri prelati del settecento. Galante corteggiatore di dame, dedicò di alcune di esse – le contesse Bruhl, Zamoyska, Potocka, ecc. – odi, sonetti ed epigrammi latini, riuniti poi in due volumi e pubblicati a Varsavia. Aiutato dal suo segretario De Sanctis, raccolse una copiosa e ricca biblioteca che aperse al pubblico. I Nunzi che venero dopo di lui furono i monsignori Faruffi, Garampi, Marefoschi, Saluzzo, Archetti, personaggi che non lasciarono tracce del loro passaggio. Monsignor Garampi, che era uno studioso, approfittò del suo soggiorno a Varsavia, per preparare una Storia dei Nunzi i Polonia. Una bella pagina ebbe invece monsignor Lorenzo Litta, milanese, giunto a Varsavia in un momento critico per la Polonia. La rivoluzione infatti trionfava coi suoi eroismi e coi suoi eccessi: quando nel 1794 le truppe prussiane si avvicinarono alla capitale, il popolo infuriato corse alle case dei Vescovi ritenuti ostili al partito nazionale, per condannarli al supplizio. Fra le vittime designate vi era il vescovo di Lublino, il quale già stava per avviarsi al patibolo, allorché monsignor Litta, indossati i paramenti pontificali e seguito dal clero, corse dal generalissimo Kosciuszko ad invocarne la liberazione, che ottenne all’istante. Per altro, non potè salvare da morte, malgrado le suppliche fatte al Re, impotente del resto in quelle giornate tragiche, i vescovi di Livonia e di Vilna. Monsignor Scotti che gli successe non potè fare nulla per la Polonia, benché il Pontefice Pio VI si adoperasse presso le potenze cattoliche, onde mantenere sul trono Stanislao Augusto, col quale era in corrispondenza. È da notarsi che per certi affari ecclesiastici piuttosto delicati, il Re, ai tempi di Durini era in relazione diretta col cardinale Torregiani segretario di Stato, e col cardinale Albani protettore della Corona di Polonia in Roma.
Oltre ai Nunzi frequentavano qualche volta la Corte i sacerdoti Don Francesco Angiolini, professore nel Collegio di Plock, il teologo Giuseppe Morandi, i canonici Magnani, Maruti, Messerati e Pietriboni, istruiti, verseggiatori facili, autori di epigrammi mordaci.
Un bel giorno poi giunse inatteso a Varsavia e trovò modo di essere presentato al Re, il celebre Casanova, il quale fece un dono di duecento ducati per avere fatta una opportuna citazione di Orazio. Il giocondo avventuriero durante il suo soggiorno nella capitale polacca non mancò di fare parlare rumorosamente di sé, per un duello alla pistola che egli ebbe col conte generale Branicki, che rimase ferito.
Ma il personaggio il quale – senza avere una posizione ufficiale sia a Corte che nel Governo – esercitò una reale influenza tanto sul Re, quanto sugli avvenimenti politici che si svolsero a Varsavia dal 1788 al 1792, fu il fiorentino abate Scipione Piattoli. Egli si trovava in Polonia sin dal 1783, ed era stato precettore nelle case Potocki e Lubomirski, finché Filippo Mazzei, che ne conosceva il grande ingegno e l’erudizione vasta e sicura, lo raccomandò a Stanislao Augusto quale segretario particolare (1788). Il Principe e l’abate italiano s’intesero presto: in breve Piattoli divenne il braccio destro del Sovrano, che egli chiamava «incomparabile padrone». Dopo di essere stato mandato in missione a Berlino per trattare d’un matrimonio del Re con la principessa Federica di Prussia, con lui collaborò alla famosa Costituzione Polacca del 3 maggio 1791, anzi ne fu, secondo alcuni, il principale autore. La redazione di quel memorabile documento politico che consta di 86 articoli, durò nove mesi, ed il lavoro venne compiuto nel più assoluto segreto. Il giorno nel quale fu largita – ormai celebre nei fasti della storia della Polonia – fu un trionfo anche per il nostro Piattoli che si trovava ai fianchi del Re, assieme ad altri compatrioti ed oriundi italiani quale monsignor Zabiello, vescovo di Livonia. L’avvenimento straordinario ebbe una grandissima eco in tutta l’Europa; Stanislao Augusto trovò ancora qualche momento di popolarità, e ne furono prova le acclamazioni che lo accolsero, allorché dalla Reggia si recò alla chiesa di Santa Croce, per solennizzare il primo anniversario della Costituzione, per il quale Paisiello compose una apposita cantata religiosa. In Italia, un ignoto poeta, Giovanni Monreali, scrisse in questa occasione una «Visione poetica» dedicandola al Re.
Ma questa Costituzione, che doveva salvare la Polonia dall’anarchia, non venne accettata dalle potenze che si erano di già annessa una buona parte del paese; le cose precipitarono, e Stanislao Augusto, onde tentare di mantenere l’indipendenza della nazione, spedì Piattoli a Dresda, perché facesse all’Elettore di Sassonia le più vive premure onde accettasse il trono polacco, come era stabilito nella Costituzione (1792). Date le condizioni tristissime del paese, la missione naufragò, ed il povero abate, il cui pensiero dominante era il risorgimento del regno polacco nel suo antico splendore, non poté neppure fare ritorno a Varsavia. Egli non doveva più rivedere il Sovrano, per la cui gloria aveva sofferto amarezze senza fine. Arrestato a Carlsbad dal governo austriaco, venne incarcerato a Josephstadt, e vi stette fino al 1800; Stanislao Augusto s’interessò bensì alla sua sorte, ma senza risultato. Spogliato dai suoi potenti vicini, egli era ridotto ad essere un fantoccio di Sovrano nelle mani della Russia. Il conte goriziano Domenico Comelli, che fu alla Corte di Varsavia in quei momenti angosciosi, parla del disgraziato Sovrano in questi termini in una sua lettera: «Povero Principe; esso è smagrito, pallido e di quando in quando ha qualche attacco di febbre: sovente piange e sospira…». Vecchio, accasciato, sotto il peso di inenarrabili sciagure, del brillante ed amabile Principe d’un tempo, non rimaneva più che un’ombra tragica, invocante invano l’Europa un atto di energia e di volontà, che salvasse la Polonia dalla morte. Ma nessuno – tranne il Papa e il Re di Sardegna – risposero all’appello disperato. Era scritto nei destini dell’umanità che la Polonia, che aveva salvato la cristianità dall’orde turche, dovesse perire.
Naturalmente il numero degli italiani che si trovavano a Varsavia, era andato nel frattempo lentamente assottigliandosi fino a sparire quasi del tutto, allorquando il Re, costretto dai nemici, prussiani, austriaci e russi, dovette abbandonare, fra i singhiozzi, la sua capitale. Condotto a Grodno, il 25 novembre 1795, egli abdicava al trono lo stesso giorno nel quale, trentun anni prima, era stato incoronato re di Polonia! Fissatogli per residenza Pietrogrado, quivi moriva, solo e sconsolato, il 12 febbraio 1798, odiato dagli uni compianto dagli altri. Egli non fu però un avventuriero, come a qualche storico piacque di qualificarlo a torto: la sua sorte, malgrado i torti e gli errori commessi, ispira una sincera commiserazione. Vissuto in un’epoca tranquilla, sarebbe passato alla Storia come un grande Sovrano. Incapace di collera, generoso, liberale, pronto sempre al perdono, dotato di straordinaria genialità, mancò però di fermezza e di audacia, la sua debolezza fu la sua rovina e la rovina della sua patria che pure amava intensamente.
Gli italiani dei quali fu vero amico devono ricordarlo tuttavia con riconoscenza, egli fu per essi un vero mecenate; nessuno fu largo come lui nel rimunerare, nel tenere in alto pregio l’arte e gli artisti nostri. I benefizi loro accordati, i premi distribuiti, i lavori ad essi affidati, sono altrettanti titoli di gratitudine. Durante il suo regno concesse patenti di nobiltà e di naturalizzazioni a ben 68 italiani, numero non mai raggiunto sotto i precedenti regni.
La Polonia sta ora per risorgere e il suo secolare martirio sta per finire; il ricordo delle trascorse sofferenze è la migliore promessa, che i polacchi sapranno degnamente, come nel passato, assidere la loro nazione fra il consesso dei popoli civili e grandi, e non ricadere in quelli errori che furono la causa della sua sparizione dal novero degli Stati europei.
O.F. TENCAJOLI
Pałac księcia Stanisława Poniatowskiego nad jeziorem Bolsena we Włoszech