Sfogliando poco tempo fa vecchi numeri della rivista italiana “EMPORIUM” mi capitò di trovare, oltre all’articolo su Józef Chełmoński, anche una pubblicazione dedicata a Jacek Malczewski (1854-1929) – un altro famoso pittore polacco presentato dal giornalista Alessandro Koltonski (EMPORIUM XI 1931 Vol. LXXIV nr 443). E’ una interessante scoperta e per questo vorrei condividerla con nostri lettori di lingua italiana. L’articolo originale in bianco e nero con le foto di R. S. Ulatowski e consultabile sul sito http://www.artivisive.sns.it. Nella mia presentazione ho inserito, dov’era possibile, le illustrazioni a colori dal sito www.pinakoteka.zascianek.pl.
Buona Lettura!
A.R.B.
ARTISTI CONTEMPORANEI: JACEK MALCZEWSKI
E’ assai probabile che a certi assidui frequentatori delle Biennali veneziane non siano sfuggiti i pochi quadri di Jacek Malczewski, i più forti e più originali fra quelli che vi venivano raccolti nella sala dedicata ai pittori polacchi.
Malczewski nacque il 15 luglio 1854 in una città provinciale della Polonia allora gemente sotto il giogo moscovita. Nel 1873, seguendo la profonda vocazione per la pittura, si recò a Cracovia per iscriversi a quella Scuola di Belle Arti. Negli anni 1876-7 lavorò nell’Ecole des Beaux Arts a Parigi. Dopo essere tornato nella città dei suoi primi studi, dove continuo a perfezionarsi sotto la guida del grande Matejko, prese parte nel 1884 ad una spedizione archeologica nell’Asia Minore. Sulla via del ritorno si fermò per un po’ di tempo ad Atene. Visitò pure due volte l’Italia. Passati gli anni 1885-6 a Monaco di Baviera, in quei tempi uno dei maggiori centri della vita artistica europea, si stabilì definitivamente a Cracovia, dove nell’anno 1897 fu nominato professore di quella Accademia di Belle Arti, della quale in seguito venne eletto anche rettore. Assai modesto e dedicato completamente alla sua arte, morì nell’anno 1929, quasi povero, vedendo i propri quadri disputati ad alti prezzi dai soliti mercanti, che dalla poca o piuttosto nessuna pratica del mondo del grande artista seppero intanto trarre dei lautissimi guadagni.
Malczewski non fu un caposcuola. Come un Boecklin, come un Rops o qualche altro, troppo indipendente e troppo individuale nelle proprie concezioni, egli non potrebbe avere che degli emuli insignificanti, che presto però s’accorgerebbero dell’impenetrabilità di quella «selva oscura», che fu la sua Arte, unica ed inimitabile.
Allievo, egli stesso, del celeberrimo Matejko, e forse il solo suo discendente diretto, non prese dell’eccelso maestro che l’aristocratica grandezza del senso pittorico e la profonda, patriottica visione del passato. Mentre l’altro, con dei quadri, sebben un po’ prolissi, ma improntati sempre di una grandiosità imponente, della Polonia dipinse la gloriosa storia, questi, colle sue opere, tutte intimità e raccoglimento, ne diede l’anima oppressa, ma ciò nondimeno superba e fidente. Al pittore puramente storico si contrappose fin dal principio lo storiosofo-indagatore.
Basterebbe ricordare qualcuno dei primi lavori del Malczewski, come: La domenica nella miniera (1882), Gli studenti proscritti (1884), La morte durante la tappa (1889), Il Natale in esilio, tutti di una lunga serie della martirologia polacca, pieni di tragica desolazione e nostalgica tristezza. E poi: La Polonia, uno dei suoi quadri più perfetti e maturi, somma espressione pittorica dell’idea della Patria – simboleggiante la terra, un delicato fiorellino campestre, sostenuto dalle forti mani di una monumentale figura muliebre, che nei magnifici lineamenti del suo corpo muscoloso e nei tratti superbi del suo volto nobile unisce la potenza produttiva della lavoratrice dei campi colla dignità protettrice della regina; davanti, inginocchiato, in estatica adorazione, baciando coll’enfasi il lembo della sua veste e toccandola riverentemente colle mani prodigiose dell’operaio – creatore – lui, umile suo figlio ed eterno servitore. Un quadro degno veramente di addobbare le linde pareti di tutte le scuole polacche.
Risultato di una continua lotta interna, un mesto dolore e una melanconica rassegnazione pervagano, come quasi un incubo, tutta la produzione artistica del Malczewski, non mancandone mai, neppure nei più felici momenti dell’abbandono. Nati dalla profonda inclinazione della sua anima poetica e misteriosa, essi, attraverso una larghissima scala di gradazioni, raggiungono spesso nelle sue opere delle vette sublimi di tale altezza, da non temere dei paragoni i più arditi.
Già fin dai primi suoi passi, la sensibilità artistica del Malczewski tese piuttosto verso il mondo trascendentale del sogno e dell’esaltazione. Fu però l’appassionata ricerca dei rispettivi mezzi d’espressione che l’indirizzò anzi tutto verso quel naturalismo ad oltranza, tanto caratteristico per il primo periodo della sua attività di pittore.
Raggiunte con degli scopi alti e ben prefissi, a prezzo di tenaci ed instancabili studi della natura, specialmente all’epoca della sua permanenza all’Ecole des Beaux Arts, la grande padronanza del disegno e la vera maestria nel trattamento plastico della figura, non lo spinsero però verso l’abbagliante, ma superficiale virtuosismo dei mestieranti e lo mantennero indifferente persino in cospetto del grande movimento rivoluzionario dell’impressionismo parigino di allora, salvaguardando del tutto inalterata l’individualità del suo forte genio.
Benché nei primi tempi ancora un po’ imbarazzato delle difficoltà nella composizione dei quadri d’insieme e delle imposizioni di un realismo intransigente, mescolato di certe sdolcinature di una sentimentalità giovanile, Malczewski s’impadronì presto di tutti gli arcani dell’allora onnipotente pittura naturalistica, che per circa dieci anni trova in lui uno dei suoi adepti più devoti e costanti. A questo periodo appartiene proprio quel ciclo menzionato delle Tappe degli esiliati, prodotto del culto profondo del pittore pei martiri della libertà polacca, dei quali fin dal 1863, anno dell’infelice insurrezione, erano popolate le tundre della lontana Siberia.
La tormentosa e insoddisfatta angoscia dell’ignoto e del soprannaturale infranse però col tempo il cerchio stringente della realtà. Infatti già fin dall’anno 1885 delle figure fantastiche – ondine e fauni, angioli e chimere – cominciano ad invadere i suoi quadri, conferendo loro quell’impronta originale e quella nota poetica che d’allora in poi dominarono tutta l’arte del Malczewski.
Un’evoluzione, si potrebbe dire quasi inversa, ebbe intanto a subire anche la tavolozza dei suoi colori. Intenebriti in principio fra le pareti anguste dello studio, essi si rischiararono in seguito, diventarono man mano più ariosi e trasparenti e raggiunsero alla fine l’intensità e la vivacità delle più belle tinte della natura.
Però il distacco del Malczewski dal realismo della prima sua maniera non avvenne in un tempo solo, ma si compi piuttosto gradatamente. Infatti le sue prime ondine sono ancora delle semplici paesane, vestite di costumi popolari, e del sovrumano non mostrano che un’insolita espressione fascinatrice dello sguardo e certi movimenti che paiono ridurre a nulla il loro contatto corporeo colla terra. Del resto, la per lui tanto caratteristica, quasi scultorea plasticità naturale delle figure, che l’avvicina assai a certi grandi pittori del quattrocento italiano, specialmente al Mantegna, egli non abbandona mai, neppure nel periodo posteriore della massima spiritualizzazione della sua arte.
Un originalissimo miscuglio del fantastico e reale costituisce l’accordo principale dei ritratti e specialmente dei numerosissimi autoritratti del Malczewski, ai quali l’artista ricorre spesso non solo per risolvere certi problemi pittorici, ma anzitutto per esprimere tutta la ricchezza di quelli stati d’animo che lo straziano continuamente durante la vita intiera e non trovano la ricercata redenzione che nel definitivo rassegnamento e la conciliazione colla morte, liberatrice di tutte le nostre sofferenze. Ed è perciò, forse, che egli la rappresenta sempre sotto le sembianze di una donna dalle forme bellissime (Thanatos) e delle volte persino con un sorriso dolce e bonario (Il ritorno).
Malgrado l’eccezionale ricchezza delle espressioni, che il Malczewski sa imprimere al volto umano, la persona ritrattata gli basta raramente da sola come mezzo d’esternazione di tutto ciò che avviene nelle profondità della sua anima al cospetto del modello o della contemplazione della propria effigie nella cornice dorata di uno specchio antico. Come dei commenti materializzati vi appaiono di solito delle figure simboliche, che, nate dalla fantasia del pittore, gli permettono di raggiungere l’impossibile e compiere il miracolo della trasfigurazione, ultima ragione di ogni vera arte.
Verso gli inizi dell’attuale secolo il simbolismo diventa motivo dominante di tutte le creazioni di Malczewski. Preso intieramente dalle soluzioni pittoriche dei problemi trascendentali, egli si costruisce un mondo immaginario delle visioni, tutto suo, pieno d’incomprensibili enigmi e popolato di figure allegoriche ed esseri fantastici, che, progettati fuori dalla sua mente, acquistano il significato dei simboli, delle volte affatto completamente chiari, però sempre potenti ed assai suggestivi. Alle immagini d’invenzione propria egli vi mescola quelle della mitologia greca e religione cristiana – angioli dalle ali grandiose d’arcobaleno e bellissimi corpi, ma dai volti sempre tristi, spesso perfino deformati da sorrisi sarcastici e ghignosi; in mezzo fra i santi la patetica e dolorante figura del Redentore; dei mostri apocalittici in prostrazione davanti ad una semplice statua della Madonna col Bambino; pegasi, satiri, chimere, arpie… Queste ultime sempre e dappertutto – esseri nello stesso tempo terribili ed affascinanti: metà donne alate dagli sguardi lascivi e corpi voluttuosi, metà tigri dagli artigli minacciosi e terrificanti. In contrasto con loro – dei satiri sentimentali ed innamorati. Uno, persino cieco, con placata tristezza nella faccia sofferente, viene condotto fra due bimbi – maschio e femmina – sopra una strettissima passerella, gettata attraverso un ruscello sperduto, il fiume della vita: l’uomo procreatore, vittima eterna del demonismo della donna-vampiro. Strindberg, Rops, Przybyszewski!
Alla cupa e triste melodia di questa arte pessimista, delle volte persino opprimente del grande estinto, il dolce e sommesso lirismo dei suoi paesaggi costituisce come un fondo meraviglioso d’equilibrio, sul quale, nella mirabile bellezza della Natura, si risolvono armoniosamente tutte le inquietudini e tutti i dubbi del filosofo ed artista.
Malczewski era considerato come l’ultimo romantico della pittura polacca. Cresciuto nelle tradizioni del più alto idealismo patriottico è riuscito a fondere con propria arte i due mondi opposti dell’esistenza umana, egli, come forse nessun altro, seppe dare la sintesi perfetta di ciò che costituisce l’anima eroico – sentimentale della Polonia. Devoto fino all’ultimo momento della sua vita laboriosa alla concezione dell’arte come fede e missione, fu, accanto al grande suo contemporaneo Wyspianski ed accanto ai sommi poeti del romanticismo, della liberazione del popolo polacco indimenticabile maestro e fautore.
ALESSANDRO KOLTONSKI
[ALEKSANDER KOŁTOŃSKI]
Józef Chełmoński (1849-1914) – maestro del paesaggio polacco