Tra le minori composizioni del Mickiewicz, conviene notare Il Farys, poemetto orientale, che egli scrisse a Pietroburgo e del quale offerse poi una sua traduzione in francese a David d’Angers; l’altro poemetto Il fortino d’Ordon; la celebre Ode alla gioventù; i noti versi Alla madre polacca; gli altri Al mio cicerone; una traduzione del Giaurro di Byron, ecc; ma, come poeta, il suo canto del cigno fu Pan Tadeusz, lodatissimo, come già dicemmo, dai polacchi, ma da altri, invece, reputato indegno di lui, da altri, i quali, nella sua opera poetica, mettono al disopra di tutto tre poemi: I Dziady, Grazyna e Corrado. Reso assai pratico nel francese, il Mickiewicz scrisse, in questa lingua tre lavori drammatici: I confederati di Bar, Jacopo Jasinski, o I due polacchi e Il castello di Cracovia, de’ quali, peraltro, non sono rimasti che alcuni frammenti, frammenti notevoli, che racchiudono rare bellezze.
La sua costante tendenza al misticismo aveva subito variazioni, a seconda degli ambienti e delle amicizie. Vivendo a lungo tra ortodossi e luterani, il primitivo suo grande ardore cattolico s’era andato alquanto intiepidendo, mentre l’influenza del pittore e musicista Oleszkiewicz, nel quale vuolsi veder raffigurato il prete Piero dei Dziady e un poco anche il vecchio bardo del Corrado, lo risospingeva verso le credenze pagane della sua nativa Lituania; ma, una volta a Roma, i suoi rapporti e la dimestichezza con Eva Ankwicz, della quale fu pure, un momento, invaghito, ma che il padre, orgoglioso magnate, gli ricusò; con l’amica di lei, Marcellina Lempicka e l’abate Choloniewski, tutti tre suoi compatrioti, e con l’abate Roberto di Lamennais e il conte Carlo di Montalembert, non tardano a rinfiammare quel sopito suo ardore. Di fatti, non così a Parigi, egli pubblicò Il libro della nazione polacca e del pellegrinaggio polacco, che il Montalembert, fattosene traduttore, paragonò alle Mie prigioni di Silvio Pellico, levandolo al settimo cielo, ma che già, nel linguaggio, si risente di una soverchia enfasi biblica. Non gli mancava a compier l’opera che Andrea Towianski, il quale, con la pretesa di guarirgli, a mezzo del magnetismo, la infelice consorte, colpita da alienazione mentale, acquistò su di lui il più pernicioso ascendente, spingendolo alle aberrazioni di quello, che egli chiamò: messianismo.
Il carattere principale di codesta strana dottrina, mista di altissimi sentimenti patriottici e d’una deplorevole confusione tra le credenze cattoliche e i miti pagani, era il culto di Napoleone I, del quale il Mickiewicz fece distribuire, tra i suoi uditori del Collegio di Francia, un ritratto che raffigurava il grande imperatore cinto di funebre velo e piangente sulla carta d’Europa. Un ardente patriottismo e un esaltato misticismo trassero il Mickiewicz a rinnegare e spregiare persino la fonte più pura della sua gloria: la poesia; per consacrarsi esclusivamente a quella specie di nuova religione, dalla quale si riprometteva la salvezza della propria patria e quella della umanità. Dominato da tale ossessione, alle lezioni di lingua e letteratura slava affidatagli dal governo francese, egli aveva sostituito, poco a poco, vere e proprie prediche e delle concioni enfatiche, che producevano sul suo uditorio i più strani effetti; v’erano uomini, che, ascoltando, piangevano; donne, che cadevano in deliquio. E fu allora che, dopo Gli slavi e I paesi slavi e la Polonia, semplici compendi di storia e di letteratura, egli pubblicò La Polonia e il Messianismo, La Chiesa ufficiale e il Messianismo, La Chiesa e il Messia.
Al difuori de’ suoi versi e delle sue lezioni, stenografate dagli amici, sono ancora da ricordare il giornale La Tribune des peuples, ch’egli fondò a Parigi, nel periodo della sua maggiore effervescenza; l’ode latina In Bomarsundum captum, ch’egli diresse a Napoleone III, allo scoppio della guerra di Crimea, per sollecitare la missione, che gli venne poi affidata, in Turchia; vari scritti di occasione ed una interessantissima corrispondenza epistolare.
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Adamo Mickiewicz, che fu chiamato il Byron della Polonia, assurge, nel cielo luminoso della poesia slava, all’apogeo, perché, nella sua opera, è trasfusa una fede costante, inesauribile, una fede, che ha radice in una visione nitida del passato e in una mistica previsione dell’avvenire, una fede che, di mezzo ai dolori, alle sciagure, alle cadute, ai disastri, brilla sempre, come fece inconsunti bile e rischiara una via, una via rimota, aspra, faticosa, ma sulla quale stende sempre le sue grandi ali tutrici l’ultima dea. Per la ragione stessa che, nel concetto epico delle sue aspirazioni e nel volo ardito della sua lirica, si rappiglia sempre alle tradizioni di quella razza ariana della vecchia Lituania, che è il vero archetipo slavo, egli è penetrato tanto più addentro di ogni altro nella coscienza popolare dei polacchi, che hanno visto in lui il più polacco dei loro poeti nazionali.
Egli, infatti, pel vivo sentimento patriottico da cui fu sempre animato, ha esercitato, con la sua Musa, un grande e diretto influsso sopra i suoi compatrioti. I Dziady gli conferirono, di primo acchito, la più grande popolarità; Grazyna, la donna eroica sfidante la morte sotto l’armatura dello sposo, doveva, otto anni dopo la sua prima apparizione, incitare alla lotta quella sublime contessa Emilia Plater, nata a Wilna il 13 novembre 1806, che, nel tentativo insurrezionale del 1830, capitanando i lituani, battè i russi presso Dunaborgo e disputò loro accanitamente Kowno, per spirare poi l’anima invitta nel palatinato di Augustow, all’annuncio della presa di Varsavia; nella rivoluzione del 1848, gl’insorti cantavano, come grido di guerra, la sua Ode alla gioventù; e, in Corrado Wallenrod, per quanto repugnante il suo tradimento; in quel truce di poema sfuggito meravigliosamente alle trafile della censura russa, i polacchi videro sempre un eccitamento alla rivolta, alla integrazione della loro patria divisa ed oppressa.
Il dettato di Mickiewicz, per quanto arduo, è altrettanto incantevole. V’è, in specie, alcunché di molto attraente in quei suoi canti polacchi, russi, slavi, zingareschi, resi con una lingua strana e rude e, nonpertanto, così cadenzata e pittoresca.
In francese, i suoi poemi furono pressoché tutti tradotti da Cristiano Ostrowski e da G. Gasztowtt. In italiano, l’oriundo francese Carlo Jouhaud, più noto nel campo delle lettere col nome di Napoleone Giotti, ci dette una buona traduzione in versi del Corrado Wallenrod.
Al primo centenario della nascita del grande poeta, tutta la Polonia ha preso parte col cuore, perché, nell’opera sua, essa ha sempre intravisto come un profetico presagio di redenzione e di gloria.
P.B. [PARMENIO BETTOLI]
Parmenio Bettoli (1835-1907) – giornalista, scrittore e commediografo italiano. Per saperne di più vedi http://www.treccani.it/enciclopedia/parmenio-bettoli_(Dizionario-Biografico)/